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                Duecento anni fa, il 12 febbraio del 1804,
                moriva Immanuel Kant. Raramente un filosofo ha acquistato tanta fama in vita come Kant.
                Eppure la sua vita fu assolutamente povera di avvenimenti esterni, forse troppo ricca di
                pensiero per disperdersi nelle strade di quella Germania del Nord, percorse da migliaia di
                "camminatori" dei quali Johann Sebastian Bach era stato uno straordinario
                esempio. Moriva dove era nato, a Königsberg, Prussia Orientale sul Mar Baltico, oggi
                Kaliningrad appartenente alla Russia. Del secolo che vide l'affermazione dell'Illuminismo,
                il filosofo prussiano fu il rappresentante del pensiero puro, della ricerca tout court,
                del volo senza vertigini nelle zone più rarefatte dell'universo mentale. Ha ragione
                Foucault quando afferma, nel suo scritto "Che cos'è l'illuminismo", che Kant
                non considera l'Illuminismo come una delle età del mondo, ma come il punto a partire dal
                quale la filosofia s'interroga sul proprio presente, anzi la forma stessa della filosofia
                moderna. 'E' per questo, evidentemente, che non possiamo non dirci illuministi, anche a
                prescindere dalla nostra valutazione sul suo significato e sulla sua eredità', conclude
                in un suo saggio l'Esposito. Certo Kant non ebbe con l'Italia un rapporto quasi carnale
                come l'ebbe Goethe, ma neppure fu insensibile al richiamo della millenaria cultura
                ellenico-romana e poi italiana. Moltissimi sono i riferimenti a scrittori, ad artisti, a
                pensatori greci, latini e italiani che si trovano nelle pagine del Prussiano. Si
                interessò a Raffaello, a Cicerone, alle statue che allora si credevano greche, ed erano
                invece copie romane di originali greci, come l'Apollo del Belvedere, scrivendone a lungo e
                con acutezza mirabile. A noi piace, in questa ricorrenza kantiana, ricordare in
                particolare l'attenzione che egli pose nei confronti di un italiano, suo contemporaneo,
                studioso eclettico e uomo d'azione illuminista, punta di diamante della intellettualità
                lombarda del settecento, il conte Pietro Verri. Famiglia quanto mai eterogenea, quella dei
                Verri, dal padre, gran personaggio comodamente sistemato entro l'entourage
                imperiale asburgico, ai figli Pietro e Alessandro, ribelli e contestatori, a Giovanni,
                padre ormai certo di Alessandro Manzoni. Pietro Verri aveva tra le altre opere pubblicato,
                anonimo, a Livorno, nel 1773, un volume intitolato "Idee sull'indole del
                piacere". L'idea centrale della ricerca filosofica era che il piacere -
                distinto in piacere morale cioè psicologico e piacere fisico - non poteva essere un
                antecedente del dolore, ma sempre e comunque un suo 'susseguente': 'Non solo il
                piacere non ha la preponderanza sul dolore ma l'uomo non può neppure godere alcun tipo di
                piacere se il dolore non lo ha preceduto.' E precisava: 'Il piacere non ha una
                realtà positiva ma è solo una liberazione dal dolore che è dal canto suo semplicemente
                negativa. Da ciò consegue che noi non possiamo mai iniziare dal piacere ma solo dal
                dolore e che il piacere può sempre e soltanto seguire il dolore poiché, dal momento che
                esso non è se non una liberazione dal dolore, non può trovarsi all'inizio'. Lo
                scritto del Verri approfondiva con grande minuzia tutta la serie logica delle
                considerazioni su tali forme del sentire, richiamando casi concreti, citando esempi,
                ricordando precedenti filosofici del problema. Riferiva, ad esempio, il famoso passo del
                "Fedone" in cui Platone rappresenta Socrate il quale, dopo aver bevuto la cicuta
                e dopo che gli erano state tolte le ormai inutili catene, si strofina le caviglie
                indolenzite provandone piacere. L'imprevista sensazione fa sorgere in lui l'interrogativo
                circa l'origine del piacere ed egli la individua appunto nella cessazione, più che
                nell'assenza, del dolore. Il Verri ricorda anche un passo di Lucrezio, che nel De
                rerum natura, V 226-229, a proposito dei neonati che si presentano alla vita
                piangendo, aveva notato: "vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum
                in vita restet transire malorum". Particolare che, come è assai noto, aveva
                colpito il giovane Leopardi. Ma non basta, il pensatore milanese soggiungeva : 'Io non
                dirò che il dolore di per sé sia un bene; dirò bensí che il bene nasce dal male'
                nel senso che 'egli è cagione di tutti i movimenti dell'uomo, che senza di lui
                sarebbe un animale inerte e stupido, e perirebbe poco dopo di esser nato; egli ci spinge
                alla fatica del lavoro de' campi, ci guida a creare e perfezionare i mestieri, c'insegna a
                pensare, crea le scienze, fa immaginare le arti e le raffina; a lui siamo, in una parola,
                debitori di tutto'. E proseguiva: 'Molti hanno detto che gli sciocchi sono
                felici; io anzi dico che i felici sono sciocchi, perché l'uomo che non soffra il pungolo
                del dolore e che tranquillamente viva vegetando, non ha una ragion sufficiente per
                superare la inerzia e attuarsi presso di verun oggetto.' Ebbene, Kant conobbe,
                verosimilmente tradusse e studiò tali riflessioni, facendone addirittura materia delle
                sue Lezioni di antropologia del 1781. Su di esse espresse conclusivamente giudizi
                lusinghieri (vedi: I. Kant, Sul piacere e sul dolore. Immanuel Kant discute
                Pietro Verri, a cura di P. Giordanetti, Milano, Unicopli, 1998) affermando, ad un
                certo punto: 'Io sottoscrivo con piena convinzione queste proposizioni del conte Verri'.
                Che cosa accomunava un personaggio schivo e pensoso come Kant ad uno brillante, impegnato
                e combattivo come Pietro Verri? Forse un cosmopolitismo spirituale e le sterminate letture
                di entrambi che determinavano un'apertura mentale ai più diversi aspetti dell'umanità?
                Noi possiamo azzardare solo una ipotesi: l'Illuminismo, la forma nuova e rivoluzionaria di
                indagine, il metodo irrinunciabile del rifiuto di scendere a qualsiasi profondità pur di
                trovare la risposta senza ostruzioni morali che si vorrebbero insuperabili, senza leggi
                religiose esterne e imposte. Ed è per questo che non possiamo fare a meno di ricordare la
                celeberrima, stupenda sintesi che Kant consacrò nella sua Critica della ragion
                pratica e che, dopo il 12 febbraio 1804, duecento anni fa, venne iscritta sulla
                sua tomba: "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me". 
                                                                             
                Cassandrino (Febbraio 2004) Inserisci un commento  |