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Dovevo molto alla Kosmos Enterprise. Mi aveva consentito, tra l'altro, di
lasciare il mio malfamato quartiere e di andare ad abitare in un ghetto esclusivo per
impiegati d'alto rango. Certo, il trasferimento comportò la seccatura di dover rinunciare
alla compagnia del buon vecchio Allen, una specie di Buddha ex sessantottino dotato di
cultura enciclopedica (per anni io e Allen avevamo condiviso la stessa tana), ma ora contava solo il sapermi sistemato e percepire uno
stipendio vero.
La centrale europea della Kosmos Enterprise, un grattacielo tutto vetri e acciaio temperato, era ubicata a Colleverde, nel ventricolo più sano del cuore della metropoli. L'edificio era avvolto in una nube di insondabile mistero. Vi entrai la prima volta un lunedì d'aprile, incoraggiato da un'agenzia headhunting. Quelli dell'agenzia mi avevano assicurato che la posizione di operating manager faceva giusto al caso mio. Così spolverai il mio abito migliore e andai all'intervista. L'oroscopo mi era favorevole: "Cancro: in questo periodo le stelle vi danno maggiore concretezza, facendovi progredire nel lavoro, negli affari e in ogni questione di ordine pratico." Ero tuttavia pieno di dubbi: sia a causa della mia scarsa scolarizzazione, sia perché nessuno era riuscito a spiegarmi che diavolo è mai un operating manager. Non nutrivo alcuna speranza di essere assunto. Ma d'altra parte, perché non tentare? Ormai avevo collezionato così tanti "no" che uno più, uno meno... La nota positiva di quei colloqui era che gli intervistatori sembravano immancabilmente attratti dalla mia persona. Non pochi di loro mi invitavano a pranzo, "per conoscermi meglio". Io di solito accettavo solo i meal tickets delle intervistatrici e inventavo pretesti per rinunciare a quelli dei loro colleghi maschi. La nota negativa era che tutti quanti i recrutatori si rivelavano essere più noiosi di quanto non fosse lecito attendersi; anche a letto. Ma la Kosmos Enterprise sembrava una ditta seria, perciò m'incitai: «Vai, Pat, vai!» Spinsi la porta ad aria compressa e puntai sulla ragazza al desk. Lei mi indicò l'ascensore dicendomi a che piano dovevo salire. Intanto un guardiano in uniforme, con il distintivo della K.E. e il revolver bene in vista, stava a scrutarmi da rispettosa distanza. Sbucai dall'ascensore in un corridoio pieno di lampade fluorescenti che diffondevano una luce biancastra. L'ufficio del researcher era a sinistra. Picchiai sulla porta ed entrai. Il researcher aveva una testa a forma di proiettile e la voce rauca, come se un acido gli avesse corroso le corde vocali. Dopo i preliminari, mi pose alcune domande all'apparenza innocue ma che in realtà - come ben sapevo - erano parte integrante della prova attitudinale. Poiché non avevo nulla da perdere, risposi a ognuna di esse inalberando buon umore. A un dato punto l'uomo si alzò. Vidi che teneva qualcosa in mano: un mini-recorder. Notando la mia espressione irretita, mi spiegò: «È per i nostri archivi, sa». Poi mi mostrò alcuni grafici, mentre parlava a ruota libera, e io, guardando quelle proiezioni di disegni euclidei, dicevo di sì senza capire un accidente. Infine mi pregò di attendere fuori. Quando fui riconvocato, un'ora dopo, mi stupii di sentirlo esclamare:
«Congratulazioni, signor Ferroni! Il posto è suo». A conferma di quelle parole,
premette un bottone, e nel mio cranio le campane di una chiesa si misero a suonare a
festa. Ero stordito, titubante. In fondo, era il primo colloquio di selezione che superavo positivamente... e già mi assegnavano la segretaria! Nondimeno, fu con piacere che mi posi sulla scia di quella sventola di ragazza. Prendemmo l'ascensore, poi percorremmo lunghi corridoi rivestiti di coni fonoassorbenti, finché lei non si arrestò davanti a una porta. Si chinò sul display e digitò la chiave d'accesso. Quindi mi lasciò il passo. Era un ufficio ampio, dai vetri fumé e con una scrivania nuova fiammante. "Però!" pensai. "Niente male." Già: niente male per uno del mio stampo, per uno come Pat Ferroni, che per anni aveva mendicato un posto di lavoro - uno qualsiasi - e che non vantava referenze attendibili. La segretaria pose sulla scrivania due cartelle, dicendomi che vi avrei trovato tutte le informazioni che mi occorrevano; poi mi dedicò un sorriso smagliante e concluse: «Per qualsiasi cosa, mi chiami all'interfono». «Senz'altro. Grazie, Marilinda.» Aprii la prima cartella, su cui spiccava la scritta "Business Portfolio". Era piena di cifre e istogrammi che io non comprendevo e che forse mai avrei compreso. Passai alla successiva, quella dei "First steps per i nuovi impiegati - Fase Uno". Lessi: "For any organization, large or small, communicating is important to being effective. Frequent communications with customers, employees, investors, or partners is a key driver to success." Il testo parlava inoltre di "partecipazioni della Kosmos Enterprise a vari settori pubblici", di "proventi autoriproducentisi", di "Corporate Identity" e roba del genere. Scoppiai a ridere. Era tutto fumo, aria calda: non mi aiutava a capire nulla sulla natura dell'azienda, né quel che pretendevano da me. Per gioco, e anche per fare una specie di prova tecnica, chiamai Marilinda all'interfono. «Sì?» Non sapendo che cosa dirle, le domandai: «Di regola a che ora è fissata la fine della giornata lavorativa?» «Alle quindici, signor Ferroni.» La ringraziai e chiusi la comunicazione. Mi misi a occhieggiare in giro. L'ufficio era provvisto di tivù, computer e (eureka!) frigobar. A quest'ultimo sottrassi una bottiglia di Southern Comfort e, dopo essermene versato una generosa porzione, andai a sbirciare dentro un armadietto dall'aria misteriosa. Conteneva fruste, vibromassaggiatori e una bambola trisessuale di silicone. Annuii compiaciuto: in quella prigione di lusso c'era tutto l'occorrente per ammazzare il tempo senza annoiarsi. Dentro un cassettone scoprii una collezione di giochi per PC recanti il marchio della Macrohard - una delle ditte che facevano capo alla K.E. -; ne testai alcuni con una mano sul mouseStick e l'altra stretta intorno al collo della bottiglia. I giochi strategici erano naturalmente per gli impiegati raziocinanti, mentre quelli d'azione erano destinati ai tipi come me, agli impulsivi, agli impazienti. Dopo qualche tempo spensi il computer e sprofondai su una poltrona di pelle, sempre abbracciato alla bottiglia. Accesi la tivù e scanalai per un'ora o due. L'apparecchio era programmato per ricevere unicamente film - film per ragazzi, d'avventura, d'animazione, commedie, thriller, hard porn, ecc. Mi dissi: "Logico. Hollywood è un enorme mercato allucinogeno. Proprio quel che occorre al manager stressato". Infine me ne stetti del tutto inoperoso a osservare dalla finestra il traffico sottostante come attraverso un cannocchiale capovolto. Il Southern Comfort si esaurì e, quando girai il polso per leggere l'orologio, scoprii che mancavano cinque minuti alle tre. Il mio primo giorno di lavoro si era concluso brillantemente. Uscii dalla mia gabbia dorata e salutai Marilinda. Lei mi rivolse un sorriso a trentadue denti, flautando: «A domani, capo». |
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